Alì, è stato il più grande del XX secolo

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Trentadue anni a lottare contro il Parkinson è già una cosa fuori dal comune, ma è proprio l'uomo e il campione ad essere fuori dal comune e ce lo ha dimostrato in tutta la sua vita. Quando la notizia della morte di Muhammad Alì è iniziata a circolare mi prese una tristezza immensa per i tanti ricordi personali e di cronaca legati alle gesta di una leggenda sul ring e di un uomo di grande spessore nella vita, un uomo libero e mai banale che per tutta la vita si è speso a favore dei più poveri e contro ogni discriminazione sociale. Era il campione amato da tutti, adorava la sua popolarità e la bella vita ma era consapevole che il privilegio che si era conquistato andava restituito con l'impegno civile. Senza di lui forse non sarebbe stato possibile avere Barack Obama presidente USA.

Di quello che è stato unanimamente riconosciuto come lo sportivo del '900, o "Il più Grande di tutti i tempi", come Alì si autodefiniva, ricordo le notti passate a guardare le sue epiche battaglie contro i suoi avversari: chi non lo ha visto si è perso un atleta superbo che alla tecnica sopraffina abbinava un coraggio da leoni, era infatti una impresa incrociare i guantoni contro campioni del calibro di Sonny Liston, Joe Frazier, George Foreman, Ken Norton, ma lui riusciva a dominarli grazie alla eccelsa classe pugilistica e alla sua debordante personalità, che li mandava fuori di testa. Dunque 40 anni a combattere sul ring e 34 a fronteggiare il morbo di Parkinson, un nemico invincibile che prima gli ha tolto la capacità motoria e poi la facoltà di parola, quella a cui teneva di più. E' indelebile l'immagine di Atlanta 1996 quando questo gigante aggredito dalla malattia teneva tremante la fiamma olimpica ma ugualmente riuscì ad accendere il tripode e dare il via a quei giochi olimpici. Il Parkinson è stato affrontato da Alì con sobrietà e serenità ma a tal  proposito non rinunciò alle sue proverbiali battute, amava ripetere che «il Parkinson è il giudizio di Dio. Mi ha dato questa malattia per ricordarmi che non sono io il numero 1, è lui».

Ad Alì devono tanto in tanti. Prima di tutto il mondo dello sport. C'è un prima e un dopo il suo ingresso nel circuito dello sport professionistico. Con le sue furbe provocazioni, l'ironia e la capacità comunicativa (impareggiabile per quei tempi) ha spazzato via i tristi rituali del mondo della boxe dell'epoca rendendolo uno spettacolo appetibile: Alì fu subito "il personaggio" che era sempre mancato, quello in cui si impersonavano tutti, grandi e piccoli, e che attirava l'attenzione di media, sponsor e curiosi di ogni angolo del mondo. E questo, naturalmente, significava più soldi per tutti.

Ad Alì deve moltissimo anche la comunità afroamericana. Il gigante di Louisville è stato il condottiero che si è caricato sulle spalle la strenua lotta per la parità dei diritti e contro la discriminazione razziale. Oggi può sembrare "quasi normale" ma non era così negli Usa degli anni sessanta. Alì era un campione ricchissimo e avrebbe potuto comodamente farsi gli affari suoi, ma lui non girò la testa dall'altra parte e (pagando anche un prezzo salato) si battè con lo stesso coraggio e determinazione di quando andava sul ring.

Sono debitori di Alì gli atleti di colore di tutti gli sport. Lui è stato quello che ha aperto la strada, prima di lui difficilmente venivano presi in considerazione o, al massimo, relegati in ruoli secondari, da allora anche nelle altre discipline gli atleti hanno potuto gareggiare, primeggiare e guadagnare contratti milionari. Bella l'immagine delle olimpiadi di Barcellona nel 1992: Alì entro in campo durante la finale e il team USA (che per la prima volta aveva schierato i professionisti NBA) appena visto l'arrivo del "Campione" smisero di giocare e si strinsero intorno a lui ricoprendolo di affetto.

Di Muhammad Alì mi piace ricordare un "no" e un "si" che hanno caratterizzato la sua vita. Il no è ovviamente quello alla guerra. Rifiutò la "chiamata" per combattere in Vietnam. Ripetè all'infinito che era contrario a bombardare un paese povero e i vietnamiti avevano tutto il diritto di vivere tranquillamente nelle loro case. Poi sintetizzava il tutto con una delle sue battuta d'effetto: "nessun vietcong mi ha mai chiamato negro di merda. Fu condannato a cinque anni di galera da una giuria di soli bianchi. Rimase per 3 e mezzo fuori dal ring, gli fu tolto il titolo di campione del mondo e tutti gli ingaggi, per vivere faceva discorsi nei campus. Il si è legato al suo impegno sociale. La sua popolarità è sempre stata grande per questo negli anni novanta quando vari episodi di intolleranza contro la comunità afroamericana rischiavano di innescare un pericoloso clima di odio e di violenza gli fu chiesto di girare per le moschee per calmare gli animi e parlare della necessità di una convivenza pacifica. Muhammad Alì non ci pensò un attimo ad accettare, pur gravato dalla malattia girò il paese portando il suo contributo di pace. Anche per questo era e rimarrà "Il più grande di tutti i tempi".